“Islam politico” e sinistra<

Riflessioni in margine a uno strano flirt

Pubblicato in Libertà di educazione, n.5 [2003], pp. 72-5. I titoletti sono una aggiunta successiva.

Gli ultimi anni hanno visto sbocciare un nuovo amore politico, quello di una certa sinistra (prevalentemente, ma non solo, postcomunista) verso ..., verso ... Già! Come chiamare questo davvero oscuro oggetto del desiderio? Dire l’Islam sarebbe infatti troppo generico, e anche falso; ma dire “fondamentalismo islamico” sarebbe troppo specifico, e, anche lì, eccessivo. Chiamiamolo “Islam politico”, intendendo con questa espressione distinguere tanto dall’Islam come religione quanto dagli eccessi del terrorismo massacratore quella realtà culturale-politica, diffusasi negli ultimi decenni in molto mondo islamico, e denotata da un deciso sobbalzo identitario e da forti spinte antioccidentali.

le radici dell'attuale “amore”

L’amore della sinistra europea (espressione ovviamente generica e approssimativa) per l’Islam politico ci sembra affondi le sue radici nella presa di posizione riguardo alla questione israelo-palestinese: dietro gli israeliani, ricchi, sta, fin dal ‘47, il paese leader del capitalismo mondiale, gli odiati Stati Uniti; per la sinistra è praticamente inevitabile schierarsi con i palestinesi e col mondo arabo, i proletari della situazione, non per nulla appoggiati dal (e legati al) paese leader del comunismo mondiale, l’Unione sovietica. Da notare che l’amore è inizialmente non per l’Islam, sia pure “politico”, ma per la causa palestinese e per il mondo arabo, che allora non era ancora attraversato dai fremiti fondamentalistici e anzi conosceva la stagione più laica della sua storia, col diffondersi di un modello di “socialismo arabo” (ad esempio in Egitto, Siria, Iraq, e in qualche modo nella stessa Libia), accendendo le speranze che anche il mondo arabo potesse, laicizzandosi del tutto, partecipare pienamente alla costruzione del socialismo mondiale. All’origine insomma non sta un filoislamismo, ma un filoarabismo. A ciò occorre aggiungere che fino agli anni Quaranta la popolazione palestinese era composta per quasi un terzo da cristiani: quindi, in quel momento, dire palestinesi era tutt’altra cosa che dire islam.

Le cose cambiano col deteriorarsi della situazione in Palestina, nel corso degli ultimi cinqant’anni: l’acuirsi dello scontro con Israele provoca l’esodo della quasi totalità della popolazione cristiano-palestinese, che sceglie di andare a vivere in terre più tranquille. Non si tratta di vigliaccheria, ma di realismo: dove a una iniziale, prevalente, volontà di miglioramento del tenore di vita, a cui non a caso il Cristianesimo abilita molto più che l’Islam, succede poi, dagli anni ’80, l’angoscia del trovarsi stretti nella morsa esiziale dei contrapposti, crescenti, fondamentalismi religiosi, ebraico e mussulmano.

Di fatto, negli ultimi venti anni dire palestinese è diventato sempre più dire mussulmano, anzi fondamentalista: il consenso delle organizzazioni laiche è calato sempre più, a vantaggio dei vari Hezbollah, Jihad islamica, Hamas. L’iniziale amore per la causa palestinese trascolora così, quasi inavvertitamente, in un amore a ciò che resta della realtà palestinese degli anni ’40, cioè appunto quello che abbiamo chiamato l’Islam politico. È interessante come questo cambiamento di oggetto non sia percepito da molta sinistra in modo chiaro, benché si tratti di un cambiamento non da poco. Vediamo perché.

un amore irto di contraddizioni

L’Islam è una religione che si autodefinisce “completa”, intendendo con questo dire che ogni ambito dell’umana esistenza è raggiunto e regolato dalla legge coranica; dunque non esiste una sfera profana contrapponibile, o anche solo distinguibile, da quella sacra. La figura del califfo è in questo senso emblematica: una lotta secolare come quella per le investiture, una dialettica tra potere secolare e potere spirituale, quale quella conosciuta anche nei secoli più bui della Cristianità medioevale, è assolutamente inconcepibile nel mondo islamico. Già questo fatto dovrebbe apparire alla sinistra europea, che ha come matrice culturale, sia pure ormai vaga e impallidita, il materialismo marxista, come un fattore di incompatibilità: la sinistra, seppur postcomunista, ha un orizzonte marcatamente immanentistico, intrastorico, e risulta difficile concepire una alleanza strategica con una concezione radicalmente teocratica, come quella islamica. Appare difficile in effetti conciliare il massimo della laicizzazione con il massimo della teocrazia.

Ma c’è di più. I valori portanti della cultura giuridica islamica, integralmente accolti e semmai radicalizzati nella prospettiva fondamentalista, contrastano in modo stridente coi valori tipici della sinistra europea. Pensiamo soltanto al rapporto uomo/donna: è dalla matrice culturale cristiana che ha potuto derivare una rivendicazione di eguaglianza tra i sessi, laddove nel pensiero giuridico islamico la predominanza maschile è affermata in modo inappellabile. Valori come il femminismo, o l’apertura alla sessualità “diversa”, divenuti patrimonio della sinistra europea, sono viceversa nella cultura islamica assolutamente inaccettabili.

Non è un caso che proprio sulla base di quest’etica maschilista ci siano state in passato reciproche simpatie tra i totalitarismi di destra, fascista e nazista, e settori importanti del mondo arabo-islamico. Ma la convergenza tra nazifascismo e islam non è stata solo in ambito etico, coinvolgendo invece un arco più vasto di questioni. Non è un caso se nella seconda guerra mondiale nella quasi totalità mondo arabo-islamico si tifava per Hitler, non certo per Stalin o per Roosvelt. Del resto basta leggere quello che dicono molti siti web islamici per ritrovarsi in un clima culturale molto prossimo al nazismo, per quanto concerne l’antisemitismo: diffuso è il negazionismo riguardo all’Olocausto (dipinto, esattamente come nella propaganda nazista, come frutto della propaganda sionista, e funzionale alla giustificazione dell’occupazione ebraica della Palestina) e il credito accordato al Protocollo dei Sette Savi di Sion, un pilastro della cultura antiebraica nazista. Si trovano insomma dette molte cose che sarebbero fin nelle virgole attribuibili a Goebbels o a Himmler…

Analogo discorso per valori come aborto e divorzio, fortemente radicati nella cultura di sinistra, e osteggiati dall’Islam. In generale l’etica libertaria di sinistra (che non coincide con l’etica di sinistra, ma ne è una componente significativa e come la punta di diamante, in continuità con essa), con i suoi valori di sfrenata affermazione dell’istintività, al punto da teorizzare la libertà di drogarsi, appare in antitesi con una cultura che proibisce non solo gli stupefacenti, ma anche gli alcolici, e vede con diffidenza la musica, il cinema, i giochi.

i motivi che lo spiegano

Ma, come spiegare allora la “svista” della cultura di sinistra? Come può non accorgersi che non si trova più tra le braccia Biancaneve, ma una bitorzolutissima strega?

Si può forse parlare di una sorta di nuovo patto Molotov-Ribbentrop, stretto tra due mondi che si sanno inconciliabilmente opposti, uniti solo dall’odio contro un comune nemico (allora come oggi gli Stati Uniti)? Perché è ben vero che molte delle critiche rivolte dal comunismo novecentesco contro il sistema capitalista ricalcavano esattamente analoghe critiche dei totalitarismi di destra (ad esempio la democrazia vista come pura formalità di un sostanziale dominio plutocratico). Non sarebbe dunque la prima volta che la sinistra sceglie le proprie alleanze più per una avversione a un nemico che per un progetto positivo. E nell’attuale momento storico grande è l’odio della sinistra europea contro gli Stati Uniti, rei di avere sconfitto, con Reagan, il comunismo reale e di avviarsi a rendere irreversibile, mediante la globalizzazione, l’accettazione planetaria del modello occidentale-capitalistico, schiacciando così forse per sempre la speranza di un cambiamento sociale profondo. Contro un nemico percepito così pericoloso perciò qualsiasi alleanza può sembrare accettabile.


Per inquadrare più compiutamente la questione però occorre tenere presenti altri fattori.

1. Fondamentale è la sottovalutazione, già altre volte da queste pagine denunciata, del fattore culturale, visto come insignificante sovrastruttura. Nel DNA della sinistra c’è l’idea che solo i rapporti economico-sociali contino, e le convinzioni ideali siano solo effetti, secondari e transitori, di quelli: dunque assolutamente trascurabili. Perciò, dei due elementi dell’Islam politico, il suo antiamericanismo e il suo fondamentalismo religioso, molta sinistra europea tende a vedere solo il primo, mentre non vede, o reputa quantité négligeable, il secondo. Nel fondamentalismo la cultura di sinistra vede una moda passeggera, la verniciatura superficiale di un disagio più profondo, essenzialmente economico-sociale, la cui responsabilità ricade – ovviamente! - sugli Stati Uniti.

2. L’Islam politico è così visto soprattutto in termini di masse islamiche (termine usato dalla Lioce, nella sua sintomatica analisi): è un soggetto proletario, tanto che lo si consideri come insieme dei paesi islamici, complessivamente più poveri dell’Occidente, quanto che lo si veda come insieme degli immigrati in terra europea; e come ogni classe proletaria, in “tutto il mondo” (Manifesto), è insignito, suo malgrado, diremmo, del ruolo di soggetto rivoluzionario. Come Lenin giudicò che la classe operaia dovesse, nella situazione russa, allearsi con l’insolito partner dei contadini, così oggi l’alleanza può ben farsi con un soggetto un po’ atipico. Insomma non più falce e martello, ma mezzaluna e martello. Ma tant’è: New York val bene una Sura. Senza i contadini, in Russia, la Rivoluzione non avrebbe vinto; senza l’Islam politico, oggi, poche speranze di contrapporsi all’America.

3. Da notare che esiste una proporzionalità esattamente inversa tra le responsabilità dell’ideologia fondamentalista e quelle del capitalismo (e dell’Occidente): assolvere il fondamentalismo è l’unico modo per poter accusare l’America, l’Occidente, la cultura cristiana. Nella misura in cui invece si ammettesse una specifica responsabilità dell’ideologia radicalista, si alleggerirebbe il carico di colpe dell’Occidente. Ma è evidente che nello schema dell’interpretazione di sinistra della realtà tutta la colpa, è già scritto nel copione, deve essere dell’Occidente. E questa considerazione, per i nessi profondi tra Occidente e Cristianesimo, ci conduce a un altro punto.

4. C’è infatti un ulteriore fattore, meno esplicito, ma a nostro parere innegabile, ed è l’odio anticristiano. Nella sinistra italiana questo è meno evidente, ma in altri paesi, caso emblematico il Belgio, si tratta di un fenomeno innegabile. Nell’Islam politico una certa sinistra (in questo complice anche di altri settori dell’arco politico, e non solo politico) vede infatti non solo un prezioso, insostituibile, alleato nella lotta contro l’America e il capitalismo, ma anche un utile sicario, l’esecutore materiale di un assassinio spirituale che invano il comunismo ha cercato di perpetrare nei lunghi anni del regime sovietico: l’assassinio del Cristianesimo. Questo fattore però, ripetiamolo, non è identificabile in una sola parte politica, anche perché affonda le sue radici in un tenebroso Potere invisibile. Di fatto però, oggi, è in una certa area politica che l’odio anticristiano, in tutta Europa, trova più spazio.


Che giudizio dare di questa, inedita e spuria, alleanza? La storia si incaricherà di mostrare quanto si sia trattato di una unità vera, una unità-per, oppure di una unità-contro, foriera di accecamento verso i fatti. A noi piace concludere con una frase dei Padri del Deserto: una amicizia tra due esseri umani, che abbia un motivo puramente naturalistico, si trasforma, col tempo, in feroce inimicizia.